Perché una droga venga assunta essa deve avere un qualche effetto sul soggetto che la utilizza. Se così non fosse, non avremo alcun problema di tossicodipendenza. Come già sappiamo il cervello è quel sistema che gestisce un po’ tutte le funzioni che ci consentono la sopravvivenza. Ciò che comunque ci spinge a fare una determinata scelta è il piacere.
Esso lo sperimentiamo ogniqualvolta pratichiamo attività piacevoli, come mangiare, ascoltare musica, avere rapporti sessuali e quant’altro. Se un azione suscita piacere, tenderà ad essere riproposta. Il nostro cervello ovviamente non si oppone a tutto ciò ma è addirittura programmato per farci rivivere l’esperienza. Alcune cellule contenenti dopamina, presenti nell’area tegmentale ventrale vicino al sistema limbico, rilasciano “messaggi di piacere” alle cellule del nucleo accumbens mentre altre raggiungono la corteccia frontale. La dopamina serve in particolare a dire al cervello cosa è importante per sopravvivere e quando un’esperienza è positiva/negativa, il cervello registra tutti gli elementi ambientali associati e li memorizza nell’amigdala e nell’ippocampo, in vista di eventi futuri. Quando poi ci si ritroverà in situazioni simili, quel ricordo si attiverà incentivando il comportamento.
Sintetizzando il sistema di gratificazione è dunque composto dal sistema limbico e dalla corteccia prefrontale. Tutte le droghe vanno ad agire su questi sistemi, e l’uso protratto di queste li modificano in modo permanente. La dopamina però non è l’unico neurotrasmettitore coinvolto. A fianco ad essa troviamo il sistema oppioidergico che è coinvolto in particolare nell’abuso di sostanza. Il sistema dopaminergico media la spinta motivazionale alla ricerca dello stimolo gratificante, mentre quello oppioidergico è coinvolto nei processi di gratificazione conseguente al consumo di sostanze.
Le diverse droghe agiscono su questo sistema in maniera differente l’una dall’altra. La marijuana, per esempio, agisce sia a livello dell’ippocampo (il THC si lega ai recettori cannabinoidi diminuendo di fatto la capacità mnestica dei soggetti), sia a livello della corteccia prefrontale e del sistema limbico alterando le loro naturali funzioni. Gli oppiacei vanno anch’essi a modificare il funzionamento del sistema limbico, nonché del tronco encefalico e del midollo spinale. L’alcool invece va ad agire sul cervelletto, sull’ippocampo e sulla corteccia prefrontale. Quest’ultima, negli adolescenti è ancora in via di sviluppo, e un abuso di alcool porta a uno sviluppo non naturale della corteccia.
Partiamo dal fatto che ad ogni stimolo si ha il rilascio di un neurotrasmettitore che comporta una risposta specifica. Uno di questi è, come detto, la dopamina. Il cervello, di conseguenza, riceverà una moltitudine di segnali di piacere e per riequilibrare l’omeostasi cerebrale tenderà a far passare meno sensazioni di piacere. Col passare del tempo si dovranno assumere maggiori sostanze per ottenere questo livello di piacere, la cosiddetta “tolleranza”.
I livelli di dopamina, qualora non si assumesse poi la sostanza, risultano inferiori alla norma e questo provoca un abbassamento del tono dell’umore, irritabilità e un po’ tutti i sintomi della “fase di astinenza”. Il cervello, così come l’intero corpo umano, ha la tendenza ad auto curarsi, e per evitare questa tendenza di disagio dovuta alla
mancanza di dopamina, tenderà a tornare a livelli iniziali.
Questo è più difficile negli adolescenti in quanto hanno un sistema nervoso in via di sviluppo e, squilibri in questa delicata fase, possono portare a danni irreparabili e uno sviluppo anomalo del cervello. E’ acclarato dunque che nella tossicodipendenza il sistema dopaminergico gioca un ruolo da leone. L’equazione è semplice; se l’effetto della sostanza è piacevole, continuo a prenderla. La dopamina e il sistema di ricompensa è sicuramente una concausa della dipendenza; ad esso si devono sicuramente aggiungere altre variabili quali il contesto familiare, lavorativo, amicale, la storia del soggetto e quant’altro.
Il cervello nelle new addictions
L’area prefrontale è associata con la capacità di assumere decisioni vantaggiose sul lungo periodo (Iowa Gambling Task).
Lesioni di quest’area determinano ipersessualità, relazioni sociali povere, tendenza al gambling, all’abuso di alcol, scarsa lealtà, assenza di sensi di colpa.
E’ stato inoltre osservato che stimoli salienti (intenso craving) stimolano l’area orbitofrontale che risulta inattiva alla PET (Tomografia a emissione di positroni) nelle fasi di non assunzione.
L’attivazione protratta nel tempo del sistema dopaminergico porterebbe ad una disfunzione della corteccia orbito frontale, responsabile del discontrollo degli
impulsi. Di conseguenza la sola gratificazione non è sufficiente a mantenere la dipendenza, ma è necessaria anche l’alterazione di aree come la corteccia orbitofrontale.
L’attivazione cerebrale nelle nuove dipendenze non è stata granché studiata se non nel gioco d’azzardo patologico. E proprio osservando l’attivazione durante compiti decisionali e ludici (costruiti in modo da replicare il gioco d’azzardo) si sono potute osservare le aree cerebrali coinvolte nel gioco. Il sistema limbico e la corteccia
prefrontale sono coinvolte così come nelle tossicodipendenze.
Dall’immagine possiamo osservare come i circuiti coinvolti nelle nuove dipendenze e nel caso di abuso di sostanza siano gli stessi.
In particolare nel giocatore d’azzardo patologico si è potuto notare come ci sia una mancata attivazione della corteccia coinvolta nella gratificazione sia nel caso in cui il soggetto vinca del denaro, sia nel caso in cui perda. Questo fa pensare al fatto che al soggetto patologico non “interessi” la vincita o la perdita, ma il gioco in sé.
L’ipoattivazione cerebrale sembra essere dovuta a una minore attività del sistema di ricompensa rispetto alla fase dell’aspettativa della vittoria. Questo significa che mentre il soggetto gioca i livelli dopaminergici sono più elevati rispetto a quando invece vince o perde; inoltre durante il gioco si può osservare una minor attivazione
delle aree prefrontali. L’attesa della vittoria o sconfitta, gratifica molto di più che il risultato.
Abbiamo perciò visto che nel caso di una dipendenza come nel gioco d’azzardo patologico, la dopamina e la corteccia prefrontale si modulano a vicenda. Questo meccanismo di attivazione/inibizione dopaminergica porta al formarsi della dipendenza. Si può presumere che nel caso di un dipendente sessuale il sistema funzioni in modo analogo.
Agire sul cervello per modulare la mente o agire sulla mente per modulare il cervello?
Dopamina, serotonina, corteccia prefrontale, oppioidi. Abbiamo osservato come il nostro cervello si comporta in determinate situazioni che comportano poi una dipendenza. Abbiamo visto che differenze dal punto di vista strettamente biologico in un tossicodipendente e in un dipendente comportamentale sono minime.
Nel primo abbiamo l’assunzione di una sostanza, nel secondo invece abbiamo l’assimilazione di un comportamento. E’ accertato dunque che le regioni attivate, e i meccanismi biologici alla base di questi comportamenti sono gli stessi; basandomi su questa premessa mi permetto dunque di fare alcune speculazioni. Oggigiorno abbiamo la possibilità di osservare in diretta cosa succede durante un processo cognitivo, quale mangiare, dormire, giocare. Possiamo osservare cosa si attiva, cosa si inibisce, i neurotrasmettitori e le cellule attive durante i processi. Se sappiamo come funziona un processo, potremmo anche intervenire (idealmente) per modificarlo. A tal proposito prendo in prestito una vecchia metafora utilizzata in passato; ovvero il cervello come un computer per rendere maggiormente chiaro il ragionamento. Se pensiamo al cervello come l’hardware e alla mente come il software abbiamo uno schema molto semplice di come funziona il tutto. L’idea è che nelle dipendenze il cervello (hardware) funzioni in modo alterato e che questo abbia ripercussioni sulla mente (software). Se dunque si sistema l’hardware, il software ricomincia a funzionare in modo corretto.
Ovviamente non è così semplice. Agendo sul sistema dopaminergico si può modulare la gratificazione per un evento che può essere la sostanza o il comportamento. Questo però non basta perché, come abbiamo visto, il sistema dopaminergico è una concausa del problema.
Dovremmo perciò agire, per esempio, anche sulla corteccia prefrontale per dare un’attivazione “corretta” durante uno stimolo e aumentando l’inibizione di fronte all’oggetto. E’ arduo pensare di lavorare sul cervello in senso strettamente biologico per modulare un’attività complessa come la dipendenza. Abbiamo visto che in
gioco ci sono regioni diverse e sistemi complessi e che ognuno ha una sua parte nei comportamenti messi in atto. Si potrebbe utilizzare un farmaco dopaminergico per dare un eccitazione al soggetto senza che metta in pratica il comportamento; ma questo non basterebbe.
Potremmo stimolare un’area della corteccia cerebrale per aumentare l’inibizione così da ridurre l’impulsività e far sì che si riesca a fronteggiare il craving. Potremmo ridurre i trigger attivanti sovra-esponendo il soggetto agli stimoli che attivano il comportamento nel soggetto. Ma tutto questo è impensabile.
L’uso di tecniche quali la TMS (Stimolazione magnetica transcranica) o la TdCS (Stimolazione transcranica con correnti dirette) è possibile nel caso in cui si voglia attivare l’area cerbrale del sistema inibitorio durante l’esposizione all’oggetto dipendente. Ma è comunque artificioso e scomodo.
Credo però che esse possano essere utilizzate come supporto a un altro metodo; come aiuto nel caso di situazioni difficili. Dopo aver esposto il perché a mio parere non si possa curare la dipendenza solamente utilizzando un metodo concreto, nel senso letterale della parola, prendo in considerazione l’utilizzo della psicoterapia nel curare le dipendenze.
L’uso della psicoterapia è interessante perché va ad agire sulla mente per “modificare” il cervello. Sappiamo che ogni volta che impariamo qualcosa, o facciamo esperienze e quant’altro, si vengono a creare nuove sinapsi. Ogni volta poi che queste esperienze vengono riproposte, o ricordate o comunque riattivate, le sinapsi si rinforzano ulteriormente.
Di conseguenza, basterà sempre un minor livello di attivazione per richiamare quell’informazione. Facciamo un esempio pratico. Un fumatore finisce per associare diversi luoghi, momenti della giornata e situazioni al fumare. Per esempio fumare dopo il caffè, mentre si aspetta l’autobus, dopo l’esame etc etc. Queste
associazioni verranno fatte dopo ogni caffè, qualsiasi autobus, qualsiasi esame, per strada. Il livello per attivare il comportamento sarà minimo. Se agissimo direttamente sul cervello dovremmo cancellare tutte queste sinapsi che si sono create e che si rinforzano; ma questo è impossibile. Se agiamo invece utilizzando la mente come
porta d’ingresso, allora questo è possibile. Se tramite la psicoterapia si creano nuove connessioni, cioè nuove sinapsi, allora si cercherà di far sì che le nuove connessioni vengano rinforzate (es. lavarsi i denti dopo aver bevuto il caffè), indebolendo le vecchie connessioni. Questo esempio vuol dimostrare che agendo sulla mente possiamo andare a regolare l’attività del cervello per quel comportamento. Ho cercato in questo lavoro di far emergere quel lato biologico a cui spesso la psicologia non presta attenzione. Studiare il funzionamento della mente senza sapere alcunché dell’apparato su cui si crea, è una grave carenza. Ho cercato inoltre di mantenere una posizione oggettiva nell’ultimo capitolo in quanto cerco di ragionare intorno ad una possibile posizione nell’affrontare le dipendenze. Posso dunque affermare che utilizzando la psicoterapia si può andare a curare un disagio come quello della dipendenza. Sono altrettanto convinto che metodi quali l’uso dei farmaci o l’uso di tecniche di neuroscienze quali la TDCS o la TMS possano essere affiancati nel recupero di queste problematiche in situazioni che possono richiedere un maggior sforzo.
Conclusioni
L’attività cerebrale nella tossicodipendenza e nella dipendenza comportamentale è simile. Nel tossicodipendente così come nel dipendente comportamentale le aree che si attivano sono le medesime. Questo non significa che le droghe o le new addiction sono uguali.
A monte vi è sempre il sistema dopaminergico che si attiva, vi è sempre la modulazione della corteccia frontale.
La dopamina sembra avere un ruolo decisivo nel formarsi della dipendenza, in quanto è collegato al piacere stesso. Maggior rilascio di dopamina, maggior piacere; questo porta poi al ripetersi dell’azione, che è la dipendenza. Inoltre l’ipoattivazione della corteccia prefrontale è simile in entrambe le dipendenze e questo può far pensare che una dipendenza sia “preferita” piuttosto che un’altra in determinati contesti.
Credo a questo punto che siano anche dei trigger ambientali, quali la maggior presenza o reperibilità di un’oggetto piuttosto che un comportamento a portare allo sfociare di una dipendenza rispetto a un’altra; non lo è solamente il disagio che il soggetto prova (la dipendenza è un modo per affrontare un disagio). Volevo infine spezzare una lancia in favore della psicoterapia, a cui spesso viene preferita una terapia alternativa, come per esempio l’utilizzo dei farmaci. Io credo che l’uso della psicoterapia possa essere un grandissimo strumento per andare ad operare a un
livello così complicato e profondo come quello delle dipendenze. Non possiamo pensare, almeno adesso, di andare a risolvere i problemi con un intervento diretto sul cervello. E’ impensabile.
Bibliografia
Bechara, A., Damasio, A. R., Damasio, H., Anderson, S. W. (1994). “Insensitivity to future consequences following damage to human prefrontal cortex”. Cognition. 50 (1–3): 7–15.